Cultura

Processionaria: storia di una battaglia persa

C’era una volta un territorio di montagne, prealpi e colline, dove, a partire dal medioevo, centinaia di piccoli nuclei umani si sono sparpagliati in ogni angolo possibile per vivere vicino alla terra che potevano coltivare, ai boschi da tagliare per ricavare legna da ardere, da costruzione, da paleria, e soprattutto per ottenere prati e pascoli per il poco bestiame posseduto da ciascuna famiglia.

Progressivamente gli alberi sono diventati pochi, isolati e preziosi, mentre le proprietà si sono divise nel corso delle generazioni e, sempre più frazionate tra gli eredi, sono diventate piccole, spesso lunghe appena una cinquantina di metri e larghe una dozzina.

Si chiama “frammentazione fondiaria” ed è una zavorra che oggi azzoppa ogni prospettiva o progetto di utilizzo o manutenzione collettiva (ne sa qualcosa Mompantero dopo il grande incendio di ottobre 2017). Quel contesto vedeva ogni proprietario visitare quotidianamente il proprio appezzamento, tagliare alla radice ogni nuovo arbusto indesiderato, combattere e distruggere immediatamente ogni parassita non appena avvistato.

Tra questi, primeggiava la nostra processionaria del pino, Thaumetopoea pityocampa, i cui bianchi “nidi” ragnatelosi sono evidenti e le cui sfilate al suolo erano visibilissime sui terreni mantenuti sempre puliti da foglie e rametti. Una lotta individuale, quotidiana, incessante, ha contenuto il parassita entro numeri ragionevoli, usando soprattutto il taglio dei rami colpiti e la bruciatura dei nidi e delle larve in movimento.

Ci si metteva anche l’inverno, il più feroce sterminatore di insetti e parassiti, che era severo e prolungato come oggi non comprendiamo più: metri di neve diffusi fino a giugno, temperature rigidissime per due mesi consecutivi e la “Piccola età glaciale” che si è esaurita nella seconda metà del 1800.

Servizio su La Valsusa del 14 marzo.

Luca Giunti

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